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I Veda e la trasmissione orale
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Atha yoga
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Ganesha: l’elefante e la forza della stabilità
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Coordinare movimento e respiro
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Pulire lo spazio del cuore
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L’importanza di una pratica quotidiana
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I tre guna
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Janushirshasana
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Saha na vavatu
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I vantaggi della pratica quotidiana
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La consapevolezza della parola
I Veda e la trasmissione orale
I Veda sono testi che ci riportano alle origini della cultura indiana, poiché essi sono successivi soltanto alla civiltà dell’Indo di Mohenjo Daro e di Harappa, di cui non sono rimaste che brevi iscrizioni e vestigia materiali. Della civiltà vedica, invece, è arrivato a noi un insieme di opere a carattere sacro, che risalgono ad un periodo compreso tra la metà del II millennio e la metà del I millennio a.C., ma non testimonianze archeologiche. Sotto il termine Veda sono da raggruppare quattro raccolte: il Rg Veda, , composto di strofe, fortemente poetiche, il Samaveda o il veda delle melodie, nel quale i poemi sono accompagnati da canto e musica, lo Yajurveda, che tratta delle forme sacrificali e il più recente Atharvaveda costituito da poemi e formule con carattere magico. Essi parlano degli dei, dei riti e degli uomini, costituendo nel complesso una cosmologia e una dottrina dell’uomo. La particolarità di questi testi è che essi non sono stati concepiti per essere letti, ma per essere ascoltati e recitati, e per tale motivo vengono chiamati Sruti: ciò che si ascolta (termine che connota anche il carattere divino della loro provenienza: ascoltati dalla voce di Dio) e non è un caso che i Veda siano arrivati ai nostri giorni soprattutto grazie alla trasmissione orale.
L’India fin dai tempi vedici è stata una civiltà che ha conosciuto la scrittura, ma la particolarità, che ha stupito gli studiosi occidentali che per primi si sono avvicinati a tale cultura, è stata che l’India, benché conoscesse la scrittura, l’utilizzasse per soli fini pratici, cioè per la redazione di atti amministrativi, politici, commerciali, mentre i Veda, che rappresentavano la conoscenza suprema, vennero affidati per la loro diffusione e conservazione alla sola trasmissione orale, cioè alla memoria.
Nella trasmissione orale dei Veda vi è un’attenzione particolare all’aspetto sonoro, un invito a meditare su ciò che sono le parole, sul modo di pronunciarle, sui suoni, che devono essere cantati in un modo ben stabilito e codificato, perché possano manifestare il loro potere interiore e creatore. In questo contesto infatti la parola da vita alla realtà nel momento stesso in cui viene pronunciata e ha pertanto carattere sacro. E’ da notare che in India non vi è alcun divieto di mettere per iscritto i Veda, ma anche se da parecchi secoli è possibile trovarne manoscritti o testi stampati, rimane viva l’idea che per esprimere il loro potenziale e la loro forza debbano essere imparati e recitati a memoria. Essi tutt’oggi costituiscono il substrato intellettuale e spirituale dell’India e un’elite colta della popolazione continua ad impararli e a mantenerne viva la tradizione, tanto che l’UNESCO nel 2004 ha dichiarato il canto vedico patrimonio non materiale dell’umanità.
La religione indù che si è costituita successivamente, dal III o IV secolo a.C., benché si richiami ai Veda, in realtà ne differisce perché propone un culto delle immagini prima inesistente, fissa luoghi per il culto che prima non si concepivano e crea nuovi testi a carattere sapienziale, quali il Mahabharata e i Purana.
Malgrado però la grande fioritura dell’Induismo, i Veda si sono conservati in modo prodigioso, perché per millenni degli uomini hanno saputo preservare, mediante la trasmissione orale, migliaia e migliaia di versi e strofe, straordinariamente difficili. Ancora oggi vi sono persone capaci di recitarli a memoria per giorni interi, non solo nel loro ordine di successione, ma anche all’inverso e seguendo complicate combinazioni di frasi che obbediscono ad ordini predeterminati e che venivano originariamente utilizzati proprio per favorirne la memorizzazione
Purtroppo, la comprensione del testo vedico si è nei secoli smarrita, e spesso di essi si è fatto uno studio solo di tipo filologico, senza andarne a cercare il valore originario. Fortunatamente dall’inizio del XIX secolo, sia maestri indiani che studiosi occidentali sono andati a riscoprire il sapere tradizionale, sforzandosi di riflettere, soprattutto i primi, su temi che da sempre appartenevano alla loro cultura.ll’inverso e seguendo complicate combinazioni di frasi che obbediscono ad ordini predeterminati e che venivano originariamente utilizzati proprio per favorirne la memorizzazione.
I Veda parlano continuamente delle origini, ma nonostante ciò in essi c’è un rifiuto del tempo lineare, poiché la meditazione sull’origine costituisce uno sforzo per ricreare nel presente l’origine stessa. L’idea che i Veda non siano stati composti ma “uditi” da rishi o veggenti, che hanno avuto la rivelazione a poco a poco, per frammenti, riporta l’idea che i Veda sono sempre stati e sono in definitiva fuori dal tempo.
Grazie al rinnovarsi continuo della tradizione anche oggi i Veda possono essere fonte di meditazione per l’uomo moderno, poiché parlano dei problemi eterni, dell’Universo, della relazione che ognuno di noi ha con la natura e con il divino e con formule originali rappresentano e spiegano la realtà prima del creato.
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Pulire lo spazio del cuore 
Una storia dell’antica India racconta un episodio della vita di un grande saggio, quando questi era ancora bambino. A quei tempi nelle case non c’erano tavole e sedie e si usava mangiare seduti per terra. Un giorno il fanciullo, prima di sedersi, pulì accuratamente con una scopa il proprio posto; allora la madre vedendolo gli disse: “Se pulisci così bene il posto dove “tu” dovrai andare a sederti, pensa come dovrai pulire accuratamente quello all’interno del tuo cuore, dove “il Signore” dovrà accomodarsi in tutto il Suo splendore.”
Il cuore in tutte le tradizioni religiose e mistiche è il luogo dove risiede il Sé, l’Essere Supremo, Dio. Molte meditazioni hanno ad oggetto questo spazio al centro dell’essere: tra le tante quella esicasta dei Padri della chiesa cristiana orientale, che nella Filocalia hanno ampiamente sviluppato la tecnica della preghiera del cuore.
Perché però sia possibile l’avvicinamento al centro del proprio sé e si riveli la Luce, è necessaria una profonda purificazione. Come racconta la storia, se noi stessi non ci sediamo lì dove è sporco, come potrebbe il Signore prendere posto in un cuore dove risiedono ancora tutte le passioni, i desideri, le gelosie, gli odi? E’ necessario quindi, da parte di chi aspiri alla conoscenza più alta, seguire una disciplina, che prepari il cuore alla migliore accoglienza. Lo yoga è una tecnica che permette di entrare progressivamente, passo dopo passo, in questo spazio e liberarlo di tutta la sporcizia accumulata in anni di non consapevolezza. E’ importante che il percorso sia progressivo, perché non è possibile improvvisamente cambiare le proprie abitudini.
La pulizia inizia prendendo coscienza delle emozioni che influenzano le nostre relazioni con il mondo esterno. Qualsiasi comportamento nasce da un pensiero, del quale talvolta non siamo neanche consapevoli. Lo yoga, grazie alla pratica di asana e pranayama ci aiuta ad avere una mente più chiara e a valutare con discernimento quali sentimenti spingono le nostre azioni o reazioni. E’ soprattutto il respiro che permette di dissolvere la confusione della mente e di comprendere come agire in maniera corretta, in ogni frangente. Quando infatti si è pieni di sentimenti ed emozioni, siano essi positivi o negativi, non si ha la capacità di valutare adeguatamente la situazione che ci sta davanti e si agisce istintivamente. Quando si sia purificata la relazione verso gli altri, ispirandola ad un comportamento di compassione e rispetto, si può allora intraprendere la pulizia del proprio corpo sia disciplinando il cibo, il sonno, che conducendo una vita morigerata sotto tutti gli aspetti. Solo allora si potrà volgere l’attenzione all’interno del cuore, per educarlo e prepararlo ad accogliere il proprio Sé.
La meditazione è il mezzo che ci viene offerto per entrare in questo spazio e
lasciare uscire ciò che lo ingombra e lo rende indegno di ricevere il proprio Ospite. Ma perché ciò si realizzi è necessaria una continua vigilanza, perché, se si lascia andare l’attenzione, riemergono pensieri, che ci riportano ai sensi e al mondo esterno. Per questo motivo, affinchè nasca il silenzio dello spirito, è importante che prima maturi la sobrietà del corpo e della mente, la capacità di lasciare andare, sia ciò che è materiale, che le fantasie della mente. Purtroppo il ricordo nutre incessantemente la mente, rendendola più debole e incapace di concentrarsi sul più alto; per tale motivo è importante la costanza nella meditazione e un atteggiamento di sobrietà verso gli oggetti. Essi infatti suscitano il desiderio, che, se non viene soddisfatto, crea la collera o la frustrazione e rende ancora più ingombro lo spazio interno. Ugualmente è necessario diventare immuni da un’eccessiva ambizione del proprio ego, che tende a realizzare se stesso piuttosto che il proprio io più profondo, che trae la sua luce dall’Io più elevato.
C’è un bel canto della Mahanarayana Upanishad che parla della purificazione, come mezzo per permettere alla propria natura gioiosa di manifestarsi. Questa purificazione segue un percorso progressivo: parte dai dieci organi di conoscenza (naso, occhi, lingua, orecchie, ecc.), per poi procedere verso gli organi di azione ( mani, piedi, cervello, ecc). Seguono poi i cinque sensi, i cinque elementi (terra, acqua fuoco, spazio, etere), i cinque contenitori di cui è costituito l’uomo, fino ad ottenere la completa pulizia del proprio organismo, fisico e psichico. Solo allora il Purusha, che risiede all’interno, si solleverà e l’uomo potrà offrirsi alla Luce che splende al suo interno.
Solo allora il fiore di loto nel nostro cuore potrà allargare i suoi petali e su tale seggio accomodarsi il nostro Sé e sentirsi a suo agio.
L’importanza di una pratica quotidiana
Lo yoga è una disciplina.
Chi intraprende questa via dovrebbe avere ben chiaro che in questo percorso ogni progresso è raggiungibile soltanto con un costante impegno .
Per questo è importante sottolineare che nessun avanzamento è possibile nello yoga in termini di capacità di concentrazione, autoanalisi e limpidezza della mente, se esso non viene praticato quotidianamente. Dieci minuti o un quarto d’ora, ripartiti tra asana, pranayama e qualche momento alla fine dedicato al silenzio interiore o alla concentrazione o alla preghiera, possono essere sufficienti per sentire gli effetti benefici della pratica.
Questi si percepiranno non solo a livello fisico (maggiore flessibilità, buon funzionamento degli organi interni), ma anche e soprattutto a livello psicologico, energetico e spirituale. Una pratica costante c’insegnerà inoltre ad avere una maggiore consapevolezza di noi stessi sia a livello fisico sia a livello mentale. Infatti, cominceremoa percepire con maggiore distinzione i bisogni e le richieste del nostro corpo; in tal modo distingueremo tempestivamente in ogni occasione della vita quando è il momento di continuare ad agire e quando invece il nostro corpo ci manda segnali che richiedono l’interruzione di ogni attività.
Ma questo è solo il primo livello di percezione: ad esso seguirà una più sottile comprensione degli stati d’animo, già al momento del loro nascere e da ciò deriverà la capacità di interpretare e capire le motivazioni dei propri comportamenti. Per questo è importante che la pratica, anche solo pochi minuti, sia caratterizzata da una profonda attenzione e presenza mentale, altrimenti essa si trasformerà in un esercizio quasi ginnico, con buoni esiti sulla salute, ma del tutto inadeguata per una maturazione dello spirito.
Un altro vantaggio della pratica quotidiana è che essa s’inserisce come un momento di disciplina nella vita caotica che ciascuno di noi conduce e pertanto costituirà un punto fermo, un riferimento, nel corso della giornata. Non è certo da considerare un dovere il fatto di praticare, quasi alla stregua di un’attività lavorativa, anzi esso è un regalo che facciamo a noi stessi, minuti preziosi che dedichiamo alla nostra crescita interiore e che quindi saranno vissuti con gioia ed entusiasmo.
Lo stesso Patanjali nei suoi Yogasutra (libro I sutra 12, 13, 14)spiega che per raggiungere il fine dello yoga, cioè la stabilità della mente, è necessaria abhyasa: una pratica costante e che abbia la caratteristica di durare a lungo nel tempo, di essere fatta senza interruzione e con zelo e devozione. Anche la Bhagavad Gita, nel IV Capitolo, parlando dello yoga sottolinea che esso deve essere praticato “con incrollabile determinazione” (sloka 23) e con “esercizio continuo” (sloka 35). Sostenuti dall’autorevole parere di questi testi, non ci resta che iniziare e fare il primo passo: può essere rinunciare a quindici minuti di sonno la mattina, andare a dormire un po’ prima la sera, oppure chiacchierare un po’ di meno per poter avere qualche momento da dedicare alla propria pratica. E’ la scelta di rinunciare a qualcosa d’altro per potere entrare sempre di più nella via dello yoga. E in tale contesto è da sottolineare che sia gli Yoga Sutra che la Bhagavad Gita, contestualmente all’esercizio costante, consigliano di praticare vairagya: l’abbandono, cioè il graduale distacco dai desideri e dall’attaccamento ai frutti delle proprie azioni. Solo unendo abhyasa e vairagya (esercizi e distacco) si potrà arrivare alla meta Ma qual è la meta? Forse alcuni di noi ancora non la conoscono e nemmeno hanno chiaro il motivo per cui hanno scelto lo yoga, ma sicuramente praticando quotidianamente, con intelligenza e partecipazione, questa meta apparirà più distintamente, forse si modificherà ed evolverà nel tempo, sicuramente ci aiuterà a orientare verso un fine più alto la nostra vita.
TRE GUNA
Secondo la filosofia samkhya e secondo lo yoga che a questo sistema di pensiero fa riferimento, esistono due principi fondamentali: purusha e prakriti.
Purusha significa l’abitante della città ed è definito come il testimone, l’osservatore, colui che non cambia mai. Potremmo identificarlo con la nostra coscienza, con il sé o l’anima individuale. Esso quindi non è né il pensiero, né la mente, ma qualcosa di eterno e sempre uguale ed è all’interno di ognuno di noi e illumina la nostra consapevolezza.
Prakriti è la natura mutevole delle cose, cambia continuamente, è tutto ciò che si manifesta nella realtà, ed è separato dall’osservatore, il purusha. Prakriti è sia l’oggetto materiale, il fiore, il sasso, che la mente, i pensieri, le emozioni, poiché questi ultimi non sono altro che natura, che si manifesta ad un livello più sottile. Per comprendere la differenza tra i due principi è importante far riferimento al concetto di mutamento: solo ciò che cambia è natura, ciò che è invece sempre uguale ed eterno è il purusha.
La prakriti è costituita da tre energie o qualità: sattva, rajas e tamas.
Sattva rappresenta la purezza, lo slancio verso l’alto, la serenità, la gioia,
rajas è l’eccitazione, il calore, l’energia, tamas è la pesantezza, la densità il torpore, l’oscurità.
In ogni manifestazione della natura queste tre energie sono presenti in percentuali diverse, predominando ora l’una ora l’altra, nelle diverse situazioni.
Qualunque oggetto, pensiero, attività, cibo, fenomeno atmosferico, presenta più o meno sviluppati e predominanti uno dei tre guna; avendo chiara la guna predominanza in una data situazione, si può cercare, attraverso la pratica dello yoga, di renderla più consona alle necessità del momento. Può essere per esempio possibile che in una situazione di ansia e di stress, sia predominante il guna rajas e quindi risulti difficile dormire. E’ possibile con un’adeguata pratica di asana e pranayama, modificare questa situazione ed aumentare tamas a discapito di rajas, portando quindi pesantezza e torpore nella mente, per favorire il sonno.
E’ anche interessante analizzare il ruolo dei tre guna con riferimento al cibo: tutto il cibo conservato surgelato, la carne, le patate ecc. contengono in predominanza le qualità di tamas e sono quindi pesanti per l’organismo e per la mente, difficilmente digeribili e nocivi, sia a livello di salute che a livello di spirito, poiché un corpo appesantito dal cibo è mentalmente incapace di chiarezza e lucidità.
I cibi rajasici sono invece eccitanti: il caffè, il tè, le spezie, l’aglio, la cipolla, il cacao ecc. devono essere ingeriti quando è necessario un supporto di energia per l’organismo. A livello mentale sono da sconsigliare alle persone ansiose, per la loro funzione di eccitanti, sono inoltre nocivi in caso di disturbi intestinali quali la diarrea, perché accendono maggiormente il fuoco gastrico, già troppo abbondante. Sono considerati sattvici il latte, il riso, il miele, cioè tutti quei cibi che aiutano a mantenere un equilibrio a livello fisico e favoriscono di conseguenza l’attenzione della mente . Questi sono i cibi da preferire per le persone che amano la meditazione, lo yoga e per tutti coloro che studiano o sono impegnati a livello mentale in attività creative, che necessitano di tranquillità interiore.
Come già accennato anche la pratica dello yoga può avere una funzione determinante nella predominanza di uno dei tre guna; per esempio sarvangasana (la posizione della candela) è considerata una posizione rajasica, stimolante, mentre shirshana (la posizione sulla testa) viene classificata tra le posizioni rilassanti (tamasica).
Attraverso la teoria dei guna è possibile dare un’interpretazione a tutte le manifestazioni dell’universo, cogliendo in ognuna di esse la qualità predominante: il sole è eccitante, la luna calmante, l’acqua riequilibrante ecc.
Secondo il Samkhya all’origine la materia, prima che si manifestasse nelle sue diverse forme, si trovava in uno stato di perfetto equilibrio tra i tre guna.
La vicinanza di questa prima materia molto sottile (mula prakriti= la radice della prakriti) con purusha ha determinato un primo movimento e la rottura dell’equilibrio, da cui per evoluzione progressiva si è formato tutto l’universo nelle sue differenti forme.
Purusha e prakriti non hanno alcuna possibilità di mescolarsi l’uno con l’altra, ma una prakriti in cui l’elemento sattvico sia espresso in maniera predominante ha la possibilità di conoscere un riflesso di questa coscienza immutabile ed eterna.
Scopo dello yoga è proprio quello di rendere possibile una predominanza di qualità sattivica, sia a livello fisico che mentale; a tal fine sono previste purificazioni continue, attraverso la pratica delle asana, del pranayama e degli yama e niyama (regole di condotta).
Quando la mente si sarà purificata dalle agitazioni e dalla pesantezza, solo allora si svelerà la luce interiore, oscurata dall’ignoranza della propria vera e profonda natura.
JANUSHIRSHASANA 
Janushirshasana, posizione della testa verso il ginocchio, è un’asana seduta, di flessione in avanti.
Una gamba è piegata e il piede si appoggia all’inguine, l’altra è distesa, il tronco è flesso in avanti, la fronte si appoggia sul ginocchio e le mani afferrano il piede della gamba tesa. E’ una posizione che per essere eseguita in maniera perfetta richiede una buona flessibilità delle anche e della schiena, ma può comunque essere adattata alle diverse possibilità del praticante attraverso l’ausilio di supporti o modifiche che la rendano meno intensa. Infatti si può piegare il ginocchio della gamba distesa o porre sotto di esso un cuscino, le mani si possono lasciare all’altezza del polpaccio o al ginocchio e mettere un cuscino sotto il bacino.
E’ una posizione che favorisce lo stiramento di tutta la parte posteriore della schiena, provoca un benefico massaggio sui visceri, se eseguita in forma dinamica rafforza il dorso e permette l’allungamento dell’espirazione.
Per assumerla è necessario preparare il corpo sia a breve che a lungo termine; sono importanti in proposito le posizioni che favoriscono l’allungamento delle gambe e della schiena, come uttanasana, adhomukha shvanasana, ardha uttanasana, urdhva prasrita padasana, ecc.
Poiché è necessario saper piegare la gamba all’inguine, un’utile preparazione è baddha konasana, sia distesa che seduta.
L’esecuzione dell’espirazione a krama (respiro frazionato) o con i suoni permette un rilassamento maggiore delle tensioni e quindi la possibilità di scendere con maggiore agilità verso il ginocchio disteso. Questa posizione può diventare una buona preparazione per maha mudra o pashimottanasana, ma anche per la posizione seduta di meditazione. Essa favorisce la purificazione di tutta la zona apana (addome) e l’interiorizzazione.
Come compensazione si può praticare catuspadapitham, dvipadapitham, purvatanasana, cakravakasana.
Può essere combinata con maha mudra o con una torsione e resa più intensa allacciando le mani oltre il piede, ponendo uno sgabello sotto il piede, o le mani in namastè dietro la schiena, ecc. E’ invece sconsigliata alle donne in gravidanza, a chi abbia grosse tensioni alla schiena che si acuiscono durante l’esecuzione dell’asana o a chi abbia problemi alle ginocchia. Ognuno attraverso un’attenta analisi del proprio corpo e del proprio respiro può comprendere se l’asana risulta benefica o nociva per il proprio corpo.
SAHA NA VAVATU IL CANTO DEL MAESTRO E DEL DISCEPOLO
SAHA NA VAVATU SAHA NAU BHUNAKTU
SAHA VIRYANG KARAVAVAHAI
TEJASVINAVADHI TAMASTU
MA VIDVISHAVAHAI
OM SHANTI SHANTI SHANTIH
Chiediamo di essere protetti entrambi, di avere salute e di avere un cammino privo di ostacoli. Chiediamo di essere felici nel percorrere questa via. Chiediamo di avere l’energia per proseguire fino in fondo. Chiediamo di essere aperti nell’imparare insieme e che la trasmissione di questo insegnamento non sia una trasmissione intellettuale, ma che vada al di là delle parole e sia la trasmissione di una luce splendente che porti chiarezza e pace. Chiediamo di poter lavorare insieme, in armonia, senza conflitti e senza odiarci mai. Chiediamo di essere in pace, di essere liberi dall’eccitazione che porta alla dipendenza. Pace al corpo, pace alla mente, pace a ciò che è oltre la mente.
Questo brano, in sanscrito, tratto dai Veda, è il canto con cui si inizia tradizionalmente una lezione di yoga. Con questa preghiera, insegnante e alunno si rivolgono insieme, con umiltà, ad una Forza più grande perché li unisca e li aiuti nel loro comune cammino. Ad essa si affidano, consapevoli che ogni essere umano ha bisogno di un sostegno per poter crescere in saggezza e conoscenza.
Il maestro sa di essere soltanto un tramite, una voce legata alle più antiche voci di saggi e maestri che l’hanno preceduto, l’anello di una catena ininterrotta che con dedizione ricollega l’esperienza del passato alle attuali necessità del presente.
Il discepolo si abbandona a sua volta a questa sapienza, con totale fiducia, senza paura, poiché è consapevole che, soltanto ascoltando con mente aperta, l’antico insegnamento potrà diventare viva esperienza personale.
Tutti e due sanno che la loro relazione deve essere viva e costruttiva, altrimenti non ci sarà entusiasmo e attenzione, né possibilità di apprendimento e crescita per entrambi. Sono inoltre necessarie amicizia e rispetto reciproco e soprattutto un sentimento di eguaglianza, grazie al quale nessuno dei due domina l’altro, ma coopera e condivide la propria esperienza..
Il canto termina con la ripetizione per tre volte della parola shanti, perché non vi sia ostilità, né a livello fisico, né della parola, né del pensiero, ma si cresca insieme con “la pace” nel cuore.
I VANTAGGI DELLA PRATICA QUOTIDIANA
Nello yoga il corpo si impegna ad assumere alcune forme che non sono quelle usuali della vita quotidiana. Gradualmente e progressivamente esce dagli schemi consueti di movimento per entrare in torsioni, inversioni, stiramenti a cui né il corpo né la mente sono abituati.
Lo stesso avviene con il pranayama che permette di sperimentare tecniche di respiro con ritmi e attenzioni diversi da quelli automatici.
Questi processi di adattamento del corpo e del respiro possono diventare molto stimolanti se congiunti ad una vigile consapevolezza e preparano la mente a più impegnative pratiche, quali la concentrazione e la meditazione, che ci spingono verso uno stato di quiete dei pensieri, condizione questa veramente inusuale nella vita quotidiana. In questo modo lo yoga ci insegna nuovi modelli di comportamento e ci affranca dalle abitudini sedimentate dentro di noi.
La pratica dello yoga, se continua ed attenta, apre la mente, espande la personalità,ci prepara ad accogliere, ad immedesimarci, ad adattarci e a vivere con empatia le nostre vite. L’elasticità e l’armonia che acquista il corpo è nello stesso tempo armonia ed elasticità della mente, la forza del respiro diventa forza di concentrazione e determinazione. Grazie alle infinite forme delle asana e del pranayama lo yoga ci insegna a sperimentare le innumerevoli realtà dell’universo e a scoprire, al di là del continuo mutamento, l’essenza unica che tutto pervade.
LA CONSAPEVOLEZZA DELLA PAROLA
Quando si parla di consapevolezza della parola bisogna far riferimento a due situazioni:
• La parola che esterniamo attraverso la voce, ma che prima della sua manifestazione nasce come pensiero.
• La parola che ascoltiamo
Il linguaggio è esclusiva prerogativa del genere umano, l’animale non ha elaborato questa meravigliosa capacità di espressione, che può raggiungere livelli sublimi nella letteratura e nella poesia. La parola è la base e il sostegno della mente, poiché senza parola e suono i pensieri e le idee non esisterebbero.
Quando nella mente si agita un pensiero, allora si muovono anche una parola e un suono. Il suono è energia e quando si manifesta crea una tensione su tutto il sistema psico-fisico. La vibrazione, come noto, si propaga attraverso lo spazio ed ha la capacità di penetrare ovunque, anche nelle cellule del corpo, che la accolgono, la assorbono e si trasformano a seguito di questo contatto. Le vibrazioni possono essere quelle sottili del pensiero, quelle più grossolane della parola, dei rumori o dei suoni, ma ciascuna di esse determina modificazioni a livello del corpo, della mente e delle emozioni.
Ognuno ha sperimentato come una frase tagliente possa creare una ferita interiore, o come un’espressione delicata possa commuovere e far tornare alla memoria emozioni del passato.
Questo potere insito nelle parole dovrebbe stimolarci a sviluppare una maggiore consapevolezza nell’uso che ne facciamo, che non significa controllare e reprimere la comunicazione, bensì considerare l’effetto che potrebbe derivare da un linguaggio non corretto o affrettato.
Patanjali negli Yoga Sutra (II, 30 e 36), elencando i principi che dovrebbero guidare la relazione con gli altri, parla di Satya, la verità, come impegno a esprimere unicamente ciò che è reale. Al contrario, analizzando la parola falsa ci si può rendere conto come essa sia usata a molteplici livelli: come menzogna vera e propria o come aggiustamento inconscio della realtà, oppure come linguaggio ambiguo, che lascia nell’incertezza l’interlocutore e che risponde non al desiderio di non ferire gli altri, ma alla volontà di essere approvati e benvoluti. La capacità invece di usare un linguaggio sfumato, per non far soffrire inutilmente una persona, giustifica invece una piccola menzogna.
Quando con la pratica della consapevolezza diveniamo attenti alla nostra comunicazione, può accadere che ci rammarichiamo per aver perso il controllo della parola ed espresso qualcosa che non volevamo, che ha ferito, offeso e creato sofferenza. Ponendo però in positivo questo momento, osservando senza giudizio e cercando di capire perché abbiamo usato frasi offensive, qual è la paura, l’attaccamento, la confusione che le hanno fatte nascere, operiamo un importante passo nella comprensione e nella crescita interiore. Osservando cosa abita dentro di noi e ci spinge talvolta ad agire senza discernimento possiamo crescere e iniziare con molta pazienza un lavoro di trasformazione interiore.
La parola divisiva, malevola o calunniosa è un altro modo di esprimersi che crea rancori e disaccordi e non ha nessuna utilità, come pure la parola oziosa, che può essere spinta dal desiderio di mettersi in mostra, ed è un modo sottile di esercitare una prepotenza nei confronti degli altri.
C’è anche la parola “inutile”, che si esprime con una comunicazione abbondante e invasiva che letteralmente affoga l’ascoltatore in un mare di chiacchiere e nega agli altri la possibilità a loro volta di esprimersi e di essere ascoltati. Tutti questi modi in cui si manifesta la nostra disattenzione, superficialità sono da osservare e analizzare per poi scegliere di uscirne.
Altro discorso merita la parola che ascoltiamo. Anche in quest’ambito è facile rendersi conto di come il nostro orecchio sia continuamente stimolato da suoni e rumori che non sempre scegliamo di udire, ma che influenzano profondamente il nostro stato interiore. C’è l’insana abitudine di offrire ovunque sottofondi musicali: metro, bar, ristoranti, negozi, uffici e nell’ambito casalingo televisione o radio, accesi anche quando nessuno le ascolta. A ciò è da aggiungere la conversazione che giornalmente siamo tenuti a tessere con gli altri, talvolta particolarmente invasiva. Anche in quest’ambito dobbiamo impegnarci per imparare a scegliere cosa vogliamo veramente ascoltare e cosa preferiamo lasciare fuori, perché ci disturba, ci distrae, ci appesantisce.
Nel mondo antico le parole erano considerate sacre e sono arrivate fino a noi tradizioni che danno valore a suoni particolari come formule magiche, mantra, incantesimi. In quei contesti alla parola era riconosciuto un potere creativo e di possibile trasformazione della realtà. Nello yoga il mantra è usato per scopi molteplici: come mezzo per arrivare a uno stato di meditazione, come tramite tra l’umano e il divino, come risanatore di alcuni disagi fisici, emotivi o mentali.
Perché la parola, nella forma di mantra, preghiera, invocazione o altro, possa effettivamente manifestare i suoi effetti, è però necessario che essa risuoni in uno spazio. Quando la mente è troppo affollata di pensieri e voci è necessario svuotare e pulire il contenitore attraverso la pratica di asana, pranayama, attraverso l’attenzione alla nostra comunicazione e con l’esercizio del silenzio.
Solo allora la parola riacquisterà la forza e il potere che le sono propri, diventando strumento creativo e non distruttivo.